Profit e non profit camminano insieme

Mario Raffaelli, presidente di Amref Italia, già sottosegretario agli esteri con delega per l’Africa, in questa intervista parla del ruolo della cooperazione italiana tra novità e incertezze, delle potenzialità trentine per gli imprenditori e del rapporto profit e non profit.

Raffaelli, quali sono le novità della nuova legge sulla cooperazione?

Le novità sono l’istituzione della figura di un viceministro, la creazione di un comitato interministeriale, in modo che la politica di cooperazione sia in grado di influenzare tutte le politiche del governo. L’istituzione dell’Agenzia nazionale per la cooperazione internazionale per la gestione dei progetti. L’unificazione della gestione dei vari filoni finanziari, che dovrebbero alimentare la cooperazione. E, infine, aver riconosciuto come soggetti della cooperazione gli imprenditori, che una volta erano un tabù assoluto. Questa legge fa un passo in avanti rispetto alla vecchia legge, anche se con un certo ritardo.

Si dà più forza al profit?

Più che dare più forza al profit, si è rotto un tabù che vedeva la distinzione fra profit e non profit, prevedendo delle forme di collaborazione, di sinergia, legate a due constatazioni: è ormai evidente che senza un intervento di capitali privati non c’è possibilità di sviluppo. La cooperazione tradizionale da sola non ha la massa critica sufficiente per ottenere risultati. Questo sta già accadendo. Da alcuni anni gli investimenti esteri diretti (trasferimenti di capitali privati, ndr) hanno superato in termini quantitativi l’ammontare del cosiddetto aiuto allo sviluppo (aiuto fornito da governi a sostegno dello sviluppo, ndr). L’altra ragione è che questo intervento di capitali privati nasce dalla constatazione che l’Africa, secondo tutte le analisi macro economiche, è destinata ad essere un continente importante negli anni futuri. Tuttavia c’è ancora una certa resistenza da parte delle imprese private, perché l’Africa è un’incognita. Da questo punto di vista è vitale la sinergia tra profit e non profit. Ciò che può apportare un’organizzazione non governativa in una partnership con il profit è la conoscenza del territorio. Chi ha, dunque, rapporti e credibilità già consolidati con le autorità locali e nazionali ha un patrimonio spendibile per il profit e facilità l’ingresso delle imprese.

Profit e no profit possono convivere?

Assolutamente sì, ovviamente bisogna vedere in quali settori. Un conto è una partnership per lo sfruttamento del petrolio o per acquisire grandi fette di territorio, altra cosa è fare una partnership per le energie rinnovabili. O una partnership per migliorare le produzioni agricole per il consumo interno. La politica deve dettare i limiti e c’è un dibattito in corso a livello nazionale ed europeo. Recentemente è stata elaborata un polis paper dove tutti questi problemi vengono affrontati e definiti.

Non c’è il pericolo che con il profit si ritorni ai vecchi progetti faraonici e inutili della cooperazione?

No, perché la logica in questo caso è per un profit che va per rimanere. Il difetto di una volta è che si finanziavano progetti mordi e fuggi. In questo caso si tratta di iniziative che presuppongono la volontà dell’impresa di rimanere in questi Paesi.

Ma ci deve essere una distinzione fra un’impresa che delocalizza e un’impresa che fa cooperazione internazionale.

La delocalizzazione d’impresa è un altro ragionamento e non avviene in Paesi come quelli africani. La delocalizzazione si fa dove già esiste una manodopera specializzata ma a costi minori. Nel nostro caso si va invece a creare un sistema di piccola e media impresa dove non esiste e a formare manodopera. Nella cooperazione è prevista la partnership: si finanziano delle joint venture con partner locali e quindi si produce ricchezza locale.

La solidarietà sta dentro la cooperazione o sono ancora due aspetti diversi?

No, sono aspetti uniti. Semmai la cosa che va aggiunta e che non è più un problema solo di solidarietà. Io, pur presiedendo un’associazione di solidarietà, quando mi invitano a conferenze dico sempre: “Voi pensate che venga a parlare di solidarietà, invece vengo a parlare di interdipendenza e di interesse nostroâ€.

Vale a dire?

È ovvio che esiste anche una spinta alla solidarietà, se c’è una componente umanitaria. Ma ormai l’aspetto prevalente è quello di far capire che agendo sulla cooperazione non si fa solo un atto umanitario: si fa un atto di lungimiranza per quanto riguarda i nostri figli. Perché, come ormai è visibile tutti i giorni:gli squilibri nel mondo comportano conseguenze che si riflettono in tempo reale sulla qualità della nostra vita. Vedi i problemi di immigrazioni incontrollate, delle guerre che arrivano fino a noi, del terrorismo alle nostre porte. Sono tutte questioni che sono legate anche alle disuguaglianze e alle ingiustizie. Quindi operare per un mondo più equilibrato non è più, come un tempo, solo un atto umanitario: è anche un atto di interesse. In realtà tutto questo era già stato spiegato molto bene più di trent’anni fa, nel 1980, da Willy Brandt, allora presidente dell’Internazionale socialista, quando scrisse il famoso Rapporto Brandt, con il quale coniò la famosa espressione “Nord e Sud del mondoâ€. Egli spiegava il concetto di interdipendenza, che allora era un discorso teorico e preveggente e oggi è una realtà, che anche il cittadino comune vive tutti i giorni.

Com’è cambiata la cooperazione in questi anni? Adesso ci sono le grandi imprese, gli interessi di grandi Stati, le grandi fondazioni.

La cooperazione è cambiata nel bene e nel male. Sono cambiati anche i soggetti, c’è stato un processo di evoluzione da parte dei Paesi africani. Oggi gran parte della cooperazione non è più fatta su progetti ma attraverso il cosiddetto budget support, cioè un intervento che va ad aumentare direttamente le risorse del bilancio pubblico del Paese ricevente. È, inoltre, importante, perché un intervento abbia successo, assicurarsi il coinvolgimento della popolazione locale. Questa è una precondizione per la sostenibilità. C’è, poi, un valore aggiunto: si crea del capitale umano, che è una delle componenti più importanti.

Il Trentino è stato all’avanguardia nella solidarietà internazionale, occorre fare un passo avanti rispetto alla legge provinciale?

Si dovrebbe fare un passo avanti. Il Trentino, meritoriamente, aveva voluto una legge subito dopo l’approvazione della legge nazionale 49 del 1987, dove si era inserita per la prima volta la possibilità di fare cooperazione da parte degli enti locali. Il Trentino fu lodevolmente all’avanguardia, perché fece una legislazione di secondo grado, approfittando di questa apertura. Oggi, a maggior ragione, dovrebbe essere fatto un passo avanti.

In quale direzione?

In varie direzioni. Ho accennato alle cose positive della legge nazionale, va però anche detto che la legge presenta ancora molte ambiguità e soprattutto ci sono i classici ritardi del processo legislativo italiano. Basti pensare che il regolamento di attuazione per l’Agenzia doveva essere approvato entro 180 giorni, quindi a febbraio, e probabilmente non lo avremmo prima della fine di quest’anno. Non abbiamo, dunque, ancora l’Agenzia, non abbiamo ancora il direttore e il personale. Una legge rimasta ancora sulla carta.

Torniamo al Trentino.

Il Trentino potrebbe sperimentare la dimensione e il rapporto fra profit e non profit.

Come?

Prevedendo degli strumenti finanziari diretti e indiretti che aiutino l’attività delle imprese trentine in Africa.

Cosa vorrebbe ci fosse in una nuova legge?

Io inserirei un articolo, che non occorre inventarlo ma mutuarlo: prevedere delle risorse aggiuntive e delle facilitazioni, che possono essere non solo finanziarie. E ci deve essere un ufficio che sia in grado di dare informazioni adeguate alle imprese, di segnalare le opportunità e di accompagnare la cooperazione.

Rischia di essere un surrogato dall’Agenzia nazionale, serve?

Non occorre costruire nuove realtà, ne abbiamo fin troppe.

Intravvede un’opportunità anche per le aziende trentine?

Assolutamente sì.

Non crede che le dimensioni delle nostre aziende siano troppo piccole?

No, sono nella condizione di poter e di dover internazionalizzarsi. Il sistema produttivo trentino ha tutto l’interesse a cercare nuove strade. E la dimensione piccola e media è adatta per inserirsi in alcuni settori, come l’agricoltura, l’agroindustria e la lavorazione del legno. Noi sappiamo che il legno è una risorsa spesso rapinata in Africa. Avere, invece, un’imprenditoria capace di insegnare come si può far sfruttare questa risorsa, senza distruggerla, è importante. Le possibilità ci sono anche nelle energie rinnovabili. Vi sono una serie di settori anche pubblici, specifici del Trentino, che potrebbero aiutare in questa direzione. Non si deve agire per spot ma dar vita a una vera e propria politica. Con un gruppo di amici proponemmo che fosse istituito un vicepresidente con la delega all’internazionalizzazione, nell’ambito della quale anche la cooperazione diventava uno strumento. Non è sufficiente dire: “facciamogli studiare l’ingleseâ€.

Occorre concentrare l’azione della cooperazione internazionale su alcune specifiche aree?

Sì, la scelta di concentrare gli sforzi in un’area è una scelta che va fatta. Troppe volte teorizzata ma non praticata realmente. La scelta deve essere fatta per più ragioni. Per la scarsità di risorse c’è quindi la necessità di concentrarle, ma anche il fatto di stabilire rapporti di lunga durata con alcuni Paesi è utile e profittevole per entrambi. È impensabile spalmare le risorse su troppe realtà.

Il Trentino dovrà avere un rapporto di collaborazione con l’Agenzia nazionale. Non c’è il rischio di finire soffocati?

Oltre che con l’Agenzia nazionale, il ruolo del Trentino dovrebbe essere a tutto campo. Nella nuova legge vi sono zone d’ombra e di sovrapposizione come, ad esempio, il rapporto che deve intercorrere fra direzione generale del ministero della cooperazione e l’Agenzia. Il Trentino, avendo ottenuto un posto nel Consiglio Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo, ha di fatto un ruolo attivo, non solo nei confronti dell’Agenzia ma anche del ministero.

Non è solo questione di ruolo, non vede il pericolo che i progetti trentini scompaiano  dentro i grandi progetti dell’Agenzia?

Sì, se non facciamo niente, se stiamo fermi.

Ma lei non voleva creare una comunità Sant’Egidio in Trentino di matrice laica per risolvere i conflitti?

Scrissi più di dieci anni fa di questa possibilità. Adesso qualcosa è stato fatto, secondo me in maniera frammentata fra Provincia, Università e Fondazione Bruno Kessler. Io pensavo a un unico strumento dentro al quale ci fossero tutte le componenti, ma nulla quaestio se c’è una politica che coordina queste realtà.

 

Mario Raffaelli, presidente di Amref Italia e vicepresidente internazionale di Amref dal 2010, dopo molti anni di impegno nei processi di pace seguiti come rappresentante del governo italiano in diversi paesi del mondo. La reputazione internazionale di Mario Raffaelli è legata in particolare al suo ruolo di Chief mediator nel processo di pace in Mozambico, dal 1990 al 1992. Raffaelli è anche conosciuto per il suo lungo impegno per la Somalia, dove è stato Speciale Rappresentante del governo italiano, dal 2003 al 2008. È stato nominato esperto per le iniziative di pace nel Corno d’Africa durante la presidenza italiana del G8.

 

  08 Luglio 2015
Centro per la Cooperazione Internazionale
Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani
Osservatorio balcani e caucaso