MONICA ABRIOLA

MONICA ABRIOLA

L. ARCHITETTURA

Mi presento. Sono Monica Abriola, una giovane laureata in architettura della provincia di Udine di 29 anni che sta vivendo un’esperienza di volontariato in Etiopia. L’Africa per me da bambina: colori e magia. Quando sei piccola ci sono luoghi che ti incuriosiscono e basta, altri invece che stuzzicano la fantasia, che suscitano delle emozioni inspiegabili.

La mia magica Ethiopia

Mi presento. Sono Monica Abriola, una giovane laureata in architettura della provincia di Udine di 29 anni che sta vivendo un’esperienza di volontariato in Etiopia. L’Africa per me da bambina: colori, magia. Quando sei piccola ci sono luoghi che ti incuriosiscono e basta, altri invece che stuzzicano la fantasia, che suscitano delle emozioni inspiegabili. Crescendo ho associato all’Africa non solo la bellezza di luoghi incontaminati ma anche immagini di sofferenza e povertĂ  estrema. Nel tempo ho maturato l’esistenza di tali contraddizioni che, tuttavia, non hanno scalfito in me il fascino di quelle terre lontane ma, anzi, ne hanno alimentato il desiderio di conoscenza. Mi sono diplomata al liceo scientifico a Portogruaro, successivamente ho iniziato ad insegnare informatica per una scuola privata ed intrapreso il percorso di laurea in architettura a Trieste.

Ogni tanto qualche mio conoscente andava in Africa. Ognuno di loro, che andasse per viaggio di piacere o per solidarietà, rafforzava il desiderio di poter vivere direttamente quelle emozioni. Era il mio sogno nel cassetto. Conseguita la laurea triennale, ho deciso di proseguire gli studi a Udine. Il secondo anno del corso di laurea specialistica ho seguito un corso in architettura sostenibile per i paesi in via di sviluppo. Divisi in gruppi di lavoro, io e i miei colleghi dovevamo affrontare uno studio sull’architettura di terra. Nel particolare, il gruppo al quale facevo parte doveva approfondire il tema della trasformazione del territorio del Guraghe, Etiopia, ed affrontare nel dettaglio uno studio sull'approvvigionamento dell’acqua. Durante le ricerche del caso abbiamo avuto modo di scoprire che un’associazione trentina, “Solidarietà Vigolana onlus” si occupava principalmente di progetti d’acqua. Negli ultimi 4 anni di attività sono riusciti a fornire a 25.500 persone acqua pulita, potabile. Il destino ha voluto che qualche tempo dopo conoscessi quelle persone eccezionali.

E’ insieme a loro la mia prima volta nel Corno d’Africa. Ufficialmente partivo per fare dei rilievi per quello che sarebbe stato il progetto finale della mia tesi di laurea. In valigia portavo quella curiositĂ  che serbo da quando sono bambina ma anche il bisogno di immergermi in un contesto diverso, per poter guardare con occhi nuovi il mio mondo. Partivo con i dubbi piĂą o meno comuni di una giovane ragazza che si approccia a un esperienza del genere. Ma a travolgerti dell’Africa è quello che non ti aspetti. E io non lo sapevo. Non mi aspettavo di conoscere la gioia autentica. Una gioia che nel nostro continente non vedi, una gioia che è difficile da spiegare se non la guardi negli occhi di chi la vive. Un anziano di un villaggio di Wagapecha diceva:  

“L’uomo è felice se è in salute, dandoci acqua potabile ci state dando salute, quindi felicitĂ  e per questo vi ringraziamo”.  

Quindici giorni intensi, indimenticabili. Tornata in Italia, circa 2 mesi dopo sono stata contattata dalla Caritas Udine che mi ha proposto un progetto di un anno, (AVS - Anno di volontariato Sociale), proprio nei luoghi in cui ho svolto la mia tesi di laurea. Un anno di volontariato in Africa. Le persone che ti stanno attorno, che ti vogliono bene o che semplicemente ti conoscono a cui dici “Voglio andare a fare volontariato in Africa” reagiscono in modo diverso. C’è chi ti ammonisce e chi ti dice “brava”, c’è chi non condivide e dice “è meglio se trovi lavoro in Italia, non perdere tempo” chi invece ti sostiene con affetto sincero sussurrando “sono fiero di te”. Cercavano una persona nel campo dell’edilizia e mi davano solo una settimana di tempo per decidere. E io ho detto si. Perché farlo? So solo che, se fossi rimasta a casa in Italia, non avrei potuto vivere l’esperienza indescrivibile che si sta rivelando. Sono da 7 mesi in Etiopia, precisamente vi scrivo da Emdibir, villaggio a circa 185km a sud-ovest dalla capitale Addis Abeba. Per me Emdibir è diventata in breve tempo casa, sento il calore di una famiglia grazie alla sensibilità e la gentilezza del vescovo, del vicario nonché del direttore del college, di tutti gli altri sacerdoti e suore. A condividere questo importante viaggio altri due punti di riferimento, i miei due “ferenji”. “Yene addis beteseb” (la mia nuova famiglia).

Ognuno è un punto di riferimento per qualcosa e, nonostante la provenienza o l’incarico che rivestono, stanno rendendo questo mio/nostro viaggio unico. E poi ho la fortuna di vivere con delle persone cui sarò legata per sempre come ad esempio Marta, porto sicuro per me nei momenti di sconforto. Lavoro per il Segretariato cattolico di Emdibir (Emcs) presso il TVET St. Anthony Catholic College affiancando gli insegnanti locali nello svolgimento delle loro attivitĂ  con i ragazzi nel settore edile, metallurgico e informatico (ci sono anche dei corsi di sartoria e di agricoltura che, però, non seguo in quanto non di mia competenza). Ho seguito, inoltre, la realizzazione di alcuni progetti per la comunitĂ . Oltre a realizzare una caffetteria (parte del mio progetto di tesi), la struttura riprende la casa tradizionale del Guraghe, il “tukul”, rivisitata per renderla “fire proof”, il fenomeno degli incendi è molto presente nel territorio. A seguirmi in questo progetto, il mio docente, prof. arch. M.Bertagnin, facente parte della direzione scientifica dell’ Unesco. Con gli insegnanti del college abbiamo costruito delle aule, inoltre ho avuto la fortuna di collaborare con l'associazione "Mattone su mattone onlus" di Torino, iniziando a gettare le fondamenta per la costruzione di una casa a una donna vedova molto povera. Non nascondo che quando sono arrivata quello che è balzato ai miei occhi era tanta confusione. Ho avuto bisogno di un po’ di tempo prima di realizzare il contesto in cui mi operavo. Avvertivo all’inizio un senso d’inutilitĂ  e non riuscivo a trovare la mia collocazione.

Poco dopo però, anche grazie al lontano ma costante supporto del direttore di Mission onlus Udine e del direttore del college, ho individuato le attività che venivano svolte e ho compreso in che modo potevo essere d’aiuto nonostante la difficoltà della lingua. Nel viaggio precedente ero rimasta solo due settimane per rilevare dati con un gruppo di italiani, questa volta ero chiamata a dare un mio contributo: l’impatto è stato diverso. E’ stata quindi dura cominciare questa seconda nuova avventura. Credo sia normale. C’è poi da dire che qui tutto è rallentato, persino la gocciolina del naso dei bimbi va piano, in attesa che il vento e la polvere la facciano seccare.

Si è soliti pensare una cosa alla volta.

Ogni cosa necessita del suo tempo per essere fatta. La mia mente era abituata a correre e non riuscivo a rallentare. Questo mi creava delle difficoltà, non riuscivo ad entrare in sintonia con il loro modus operandi. Poi improvvisamente la corsa è diventata cammino e i pensieri hanno cominciato a susseguirsi senza fretta perché qui il ritmo non è scandito dal tic-tac dell'orologio ma il tempo è segnato dal sole: alle 6 inizia la giornata dove i primi galli iniziano a richiamare l’attenzione e alle ore 19.30 di sera iniziano a spegnersi le poche candele rimaste e a farsi sentire le iene. In un luogo dove le lancette non esistono, si impara ad apprezzare momenti che prima sembravano insignificanti, che si facevano negli intervalli di tempo, fra le mille faccende che impegnano il mondo occidentale. L’Africa diventa maestra di consapevolezza, uno scossone che allontana banali preconcetti e luoghi comuni che ci accompagnano nella quotidianità. Questa esperienza mi sta arricchendo molto. In Italia abbiamo la tendenza a lamentarci pur avendo tutto. Qui a destabilizzare è la semplicità del sorriso.

Qui sorridono in un modo così contagioso pur non avendo nulla che, quando sono rientrata per due settimane a casa in Italia, avvertivo un senso di fatica a camminare per strada e vedere persone seriose, magari infastidite per cose di poco conto. Cos’è l’Africa oggi? E’ la conferma che i luoghi che sognavo esistono: è una Terra che si lascia scoprire, che ti emoziona. Il cielo sembra avvolgerti, è così vicino che la sera è quasi possibile afferrare le stelle. E’ anche il continente dei paradossi, dove è possibile vedere la disperazione o la rassegnazione di giovani donne piegate dal peso dei sacchi o dei propri figli legati sulla schiena accanto all’allegria di bambini impolverati che corrono per le strade. Questo popolo e' forza, coraggio, fatica. Il suono dei tamburi sembra evocare il battito di migliaia di cuori impegnati in un'unica danza, uomini e donne che ballano a piedi nudi sulla terra rossa, sotto lo stesso cielo che non è uguale al nostro, è più vicino, più sovrastante e gli orizzonti sono più profondi. Cammino lungo strade che di una strada non hanno molto, eppure ti conducono, ti guidano.

E’ la Terra che sembra muovere i tuoi passi come ad invitarti a scoprire, a sapere. Percorsi tratteggiati da scarpe rotte e tanti, troppi piedi nudi. E tutto intorno riecheggiano disperazione e allegria, in un connubio impensabile, eppure possibile. Le prime volte i bambini mi urlavano “ferenje” (straniero) oppure “ferenje caramella”. Mi sentivo osservata, alle volte ero a disagio. A qualche mese di distanza tutto è cambiato. Mi vengono incontro festanti, mi chiamano per nome, mi saltano addosso per giocare, mi prendono la mano e cantano canzoncine in una lingua che è un misto tra italiano e amarico. Adesso sono loro ad offrirmi il loro biscottino.

Questi miei nuovi piccoli amici ti insegnano la generosità ma soprattutto ti illuminano sul concetto di condivisione: li ho visti dividersi una caramella, un biscotto. Cosa farebbe un bambino italiano se gli chiedessi se vuole come regalo una bottiglietta d’acqua? Sicuramente la risposta non è uguale a quella dei miei piccoli amici Teddy Lucas e Zudaye che, non dandomi neanche il tempo di finire la domanda, corrono a casa stringendo tra le mani quel prezioso regalo!!! E che dire poi delle donne sempre pronte ad ospitarti nella propria casa. Li, in quegli spazi angusti dove non immagineresti possano vivere in tanti, ci sarà sempre posto per accogliere qualcun altro e ci sarà posto anche per te, ferenje!

Scrivendo queste parole mi rendo conto che forse sto ricevendo molto più di quanto sto dando. Potrà sembrare retorica ma è quello che oggi mi sento di dire. Mancano ancora alcuni mesi alla fine di questa esperienza eppure spesso la sera mi ritrovo a guardare le foto, pensando a quanto questa esperienza mi stia aiutando a ridare forma alle mie priorità e al modo in cui spesso per abitudine o routine, sono abituata a percepire la realtà che vivo in Italia. Descrivere questa esperienza nei dettagli è difficile, penso ci vorrebbero molte altre pagine e non credo che riuscirei comunque a trasmettere quello che sto vivendo. Non voglio dilungarmi oltre quindi, scriverei per delle ore annoiando anche il più paziente dei lettori.

 

 

 

  03 Aprile 2015
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