Land Grabbing, la corsa a impadronirsi della terra

Land Grabbing, la corsa a impadronirsi della terra

Il fenomeno del “land grabbing”, letteralmente “furto di terra”, è una pratica che vede governi stranieri, multinazionali e fondi di investimento impadronirsi delle terre dei paesi più poveri del mondo con lo scopo di produrvi cibo, mangimi o biocombustibili, a scapito delle popolazioni locali, private così del loro unico mezzo di sostentamento: la terra.

 di Monica Stringari

“Qui fino agli anni Sessanta c’era una foresta, gli alberi, gli animali. Era un altro mondo. Ci hanno portato via il nostro mondo … ci hanno tolto le terre, e ora siamo qui senza nulla in mano, in quella che era casa nostra …. Noi non abbiamo certificati, non abbiamo comprato queste terre, semplicemente ci siamo nati sopra, ne siamo parte … per noi la terra è tutto, ci dà il cibo, ci dà la vita”.

E’ questa la sofferta denuncia di un capo comunità indio guaranì del Mato Grosso do Sul in Brasile: i ricchi capitalisti venuti all’improvviso da lontano hanno tolto la terra alla sua comunità, e costretto tutti ad andarsene.

Il fenomeno del “land grabbing”, letteralmente “furto di terra”, è appunto quella pratica che, da qualche anno a questa parte, vede governi stranieri, multinazionali e fondi di investimento impadronirsi delle terre dei paesi più poveri del mondo con lo scopo di produrvi cibo, mangimi o biocombustibili in regime di monocultura da destinare all’esportazione, e questo a scapito delle popolazioni locali, private così del loro unico mezzo di sostentamento. Fare delle stime è difficile dato che elemento comune alla maggior parte delle acquisizioni è l’assoluta riservatezza, si parla di decine di milioni di ettari di terra già comprati o in contrattazione per periodi di lungo termine, solitamente si va dai 30 ai 99 anni, contro corrispettivi irrisori. Tutti i continenti ne sono coinvolti, ma i più colpiti risultano essere l’Africa sub sahariana, il Sud Est asiatico e l’America Latina.

Il “caso Madagascar”

Ad accendere i riflettori su tutto questo è stato il “caso Madagascar”. Cos’era successo? Nel novembre 2008 la multinazionale sudcoreana Daewoo Logistics aveva annunciato la sottoscrizione di un accordo speciale con il Madagascar. La società aveva ottenuto in uso per 99 anni ben 1.300.000 ettari di terra dell’isola quasi gratis. “Vogliamo coltivare granoturco per garantirci la sicurezza alimentare, esporteremo il raccolto in altri paesi o lo spediremo in Corea se ce ne sarà bisogno” dichiarava il dirigente della Daewoo. “Si tratta di terra intatta e completamente incolta, coltivandola creeremo posti di lavoro per i locali, che è un bene per il Madagascar”, aveva aggiunto. I patti prevedevano che i sudcoreani costruissero le infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area: strade, sistemi per l’irrigazione, impianti per lo stoccaggio del mais, nonché la promessa di 70.000 posti di lavoro; entro l’anno successivo avrebbe avuto inizio la produzione del mais via via estesa fino a 1 milione di ettari, mentre i rimanenti 300 mila ettari sarebbero stati destinati a piantagioni di palma da olio. La metà della terra coltivabile del Paese era stata concessa in uso gratuito a fronte di un investimento di 6 miliardi di dollari in 25 anni. Il popolo malgascio, tenuto all’oscuro dell’operazione, ha iniziato una violenta protesta che ha portato al rovesciamento del governo e il nuovo esecutivo ha prontamente annullato il contratto.

Il “caso Madagascar” è stato emblematico, la punta di un iceberg sommerso che stava venendo alla luce. Il comunicato aveva finalmente catturato l’attenzione e l’opinione pubblica internazionale è stata costretta a prendere coscienza di questo nuovo genere di operazioni, a rendersi conto che, in realtà, quel che stava accadendo in Madagascar non era un caso isolato, ma riguardava l’intero continente africano e tutte quelle aree del mondo ricche di terre coltivabili.

Le cause del fenomeno

Terra ed acqua sono diventate, infatti, beni estremamente preziosi e lo saranno sempre di più. Concetti di scarsità, di lotta per queste risorse, sono tornati alla ribalta per la convergenza negli ultimi tempi di più crisi globali ritenute tutte concause del fenomeno: la crisi alimentare determinata dall’aumento per quantità e per qualità della domanda di generi alimentari (proiezioni FAO pronosticano nel 2050 un mondo popolato di 9 miliardi di persone e per sfamarle tutte bisognerà aumentare del 70% l’attuale produzione di cibo – la sovranità alimentare di molti paesi è data in forte pericolo); la crisi energetica (e di riflesso anche quella climatico-ambientale per l’inquinamento e le conseguenze che ne derivano) è dovuta invece all’esplosione della domanda di energia e costringe i paesi importatori e grandi consumatori di petrolio e gas naturali a diversificare le loro fonti energetiche con scelte meno inquinanti e più sostenibili, a cui è dovuto il boom dei biofuels (etanolo e biodiesel); infine la crisi finanziaria che, dopo il crollo del mercato “del mattone” (bene rifugio per eccellenza) ha deviato enormi masse di capitali e trasformato la terra in un bene strategico per gli investimenti, nonché introdotto la speculazione nel settore agricolo.

I “grabber”, gli arraffatori. I “grabbed”, gli arraffati

Se si guarda ai paesi maggiormente attivi nella corsa alla terra troviamo Stati Uniti, Cina, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Paesi del Golfo, seguiti da Corea del Sud, Giappone, Malesia, Singapore, ma anche Libia, Siria, Giordania, e le europee Gran Bretagna, Francia, Svezia, Italia. Si tratta di paesi caratterizzati da ritmi di crescita della popolazione incalzanti, come i colossi Cina ed India, ormai al limite dello sfruttamento delle proprie risorse, di paesi come gli Stati del Golfo Persico o la Corea del Sud ed il Giappone che, penalizzati da territori aridi o scarsi, contemplano con entusiasmo le fertili terre altrui, o infine di paesi come gli USA e i Paesi europei alle prese con il proprio fabbisogno energetico. L’Italia risulta essere tra i paesi europei più dinamici con una ventina di compagnie attive soprattutto in Africa (in particolare in Etiopia, Mozambico, Senegal) proprio per la produzione di biocarburanti.

Se si guarda invece ai paesi colpiti, ai quali la terra viene “rubata”, si può subito osservare che la partita della corsa alla terra si gioca essenzialmente nell’emisfero Sud del mondo dove si registra la maggior concentrazione di acquisizioni. La più colpita è l’Africa sub sahariana, più della metà degli accaparramenti), seguono il Sudest asiatico, l’America Latina e l’Europa orientale. A cedere la loro terra sono tendenzialmente paesi che non hanno ancora conosciuto alcun sviluppo economico, con diffuse povertà, percorsi democratici e di tutela dei diritti sociali stentati e governi favorevoli a questo genere di accordi. La girandola delle acquisizioni in terra d’Africa trova ai primi posti Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo, Mozambico, Liberia, Sierra Leone, Sudan, Etiopia, così come oggetto di consistenti accordi sono le fertili terre asiatiche della Papua Nuova Guinea, dell’Indonesia, di Pakistan, Thailandia, Laos, Cambogia, Sumatra. In America Latina le terre più ambite, per lo più da aziende private, sono quelle argentine, uruguaiane e brasiliane, ritenute affidabili e con ottime rese. La lista delle terre “in vendita” comprende anche molte aree dell’Est europeo (Russia, Ucraina, Bulgaria, Lituania, Romania, Armenia) ottime soprattutto per le produzioni cerealicole.

Che fare contro gli accaparramenti selvaggi?

Un acceso dibattito è sorto tra chi è favorevole a queste ondate di accaparramenti e di investimenti e ne sottolinea i potenziali benefici per i PVS, e chi vuole invece fermare questo modello di uso dei terreni e di produzione, auspicando il ritorno a sovranità alimentari costruite su produzioni agricole variegate, vicine alle comunità ed estese ad un livello diffuso di piccoli agricoltori. Il forte sbilanciamento delle forze in campo impone quantomeno la regolamentazione dei negoziati di modo che questi investimenti portino dei vantaggi anche alle popolazioni locali. Varie istituzioni, tra cui Banca Mondiale e FAO, stanno cercando di trasformare il business dei terreni nelle cosiddette “win win situation” cioè accordi che portino a tutte le parti dei benefici. La FAO ha anche emanato le “Direttive volontarie per la gestione responsabile della terra, dei territori di pesca e delle foreste”, un documento approvato dai suoi 191 paesi membri, ma volontario e quindi non vincolante, considerato tuttavia un primo significativo passo per fronteggiare gli accaparramenti delle risorse naturali e per il rispetto dei diritti dei popoli e dell’ecosistema.

Qui sotto di seguito alcuni grafici esplicativi.

 Per saperne di piĂą: “Land Matrix project” (http://www.landmatrix.org/)

Monica Stringari, laureata in economia con una tesi sul “Land Grabbing”

  16 Marzo 2015
Centro per la Cooperazione Internazionale
Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani
Osservatorio balcani e caucaso